mercoledì 22 giugno 2016

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Tecniche del colloquio (14/16): Integrazione e comunicazione degli elementi diagnostici

Qualsiasi processo diagnostico implica una attività di integrazione: i dati su cui esso si basa, anche ottenuti con un solo colloquio, devono essere raccolti, organizzati e resi confrontabili tramite un insieme articolato di operazioni.


Integrazione


Consiste nel confronto e nell'attribuzione di un significato o di un fine comune ad un insieme di elementi che possono anche apparire tra loro diversi (o addirittura in contraddizione).
Un integrazione terapeutica può consistere ad esempio in un trattamento concordato tra farmacologo e psicoterapeuta.
Gli elementi fondamentali per l'integrazione sono 2:

  1. la reciproca autonomia degli elementi
  2. la possibilità che le variabili sottoposte al processo di integrazione siano tra loro confrontabili e quindi integrabili 

Integrazione tra vari strumenti


Il clinico deve imparare ad usare più batterie di test, perchè usandone una sola si atterrebbe solo al modello teorico di riferimento della batteria selezionata.
Di solito in clinica, la batteria di test include un test per la misurazione del livello mentale (WAIS, WISC, ETA, BETA, matrici progressive di Raven, ecc...) e uno o più test proiettivi (Rorschach, TAT, ORT, Blacky pictures, ecc...), o al posto del test proiettivo può essere usato un questionario di personalità (es. MMPI) o una rating scales.
In generale, il confronto tra più test può portare a dati interessanti, non ottenibili dal singolo test.
La batteria si sceglie in base a 2 criteri: la necessità di avere una misurazione il più possibile globale delle funzioni del soggetto, e la somministrazione di test specifici mirati ad indagare alcune aree particolari e scelti in base ai quesiti sorti.


Di solito lo psichiatra fa il colloquio e lo psicologo somministra i test, tuttavia di solito, test e colloquio sono considerati strumenti indispensabili per una elaborazione diagnostica corretta.
Il test è uno strumento più oggettivo, mentre il colloquio è una modalità più relazionale, tuttavia ad esempio, un cattivo esito al test di Rorshach può indicare una regressione disorganizzata e quindi può essere sconsigliato un trattamento di tipo psicoanalitico.
Quando da test e colloquio escono dati discordanti tra di loro, occorre un processo di integrazione che li chiarisca entrambi.


Comunicazione della diagnosi


In caso di team di lavoro, un'organizzazione gerarchica è sconsigliata, si dovrebbero avere operatori che si occupano di diverse mansioni, tutti affidabili e competenti, ed eventualmente si può avere la figura di un supervisore neutrale.
Il lavoro d'equipe è cmq raro, di solito c'è un solo professionista che eventualmente chiede ad un altro tecnico di indagare su altre aree di sua competenza, per un approfondimento diagnostico.
I problemi di integrazione tra tecnici possono essere dovuti a:

  • uso linguaggi differenti
  • l'ambivalenza degli psichiatri che sono abituati ad avere un ruolo troppo centrale nell'equipe
  • la necessità che l'inviante chieda un parere senza dare alcuna informazione preliminare
  • la formalità della comunicazione
  • i test vengono paragonati ai raggi x dell'inconscio, e solo il testista conosce il significato dei dati di base da cui parte l'elaborazione
  • spesso l'inviante ha aspettative eccessive rispetto alle vere potenzialità dei test
  • i due professionisti dovrebbero capire cosa uno si aspetti dall'altro
  • qualsiasi incomprensione che nasce tra un inviante ed un diagnosta deve essere considerata come un ulteriore elemento diagnostico
Anche il paziente dovrebbe essere coinvolto attivamente nel processo diagnostico e partecipare alla sua conclusione come supervisore.
Di solito si ha paura di comunicare al paziente l'esito della diagnosi, per paura di spaventarlo, e negli USA è stato cmq riconosciuto il diritto ai pazienti di sapere sempre l'esito della diagnosi.

L'effetto Barnum della diagnosi si ha quando le ricerche restituiscono diagnosi false, contenenti affermazioni universali, valide per tutti gli individui.

In linea di massima occorre cmq prudenza nella restituzione della diagnosi al paziente, perchè ci possono essere effetti di intellettualizzazione o resistenze (magari dovute alle troppe informazioni ricevute tutte assieme senza il tempo necessario di assimilarle), ed è anche difficile spesso esporre una diagnosi che non risulti offensiva.
La restituzione rende il partecipante un soggetto attivo e quindi non va fatta da altre persone all'infuori del clinico.
La restituzione aumenta la fiducia reciproca e l'alleanza di lavoro tra paziente e clinico, può avere un valore terapeutico e facilitare l'inizio del trattamento, può ridurre l'urgenza di avere subito un trattamento.
Bisogna evitare linguaggi tecnici complicati durante la restituzione e non essere lo stesso troppo generici.
Bisogna inoltre scegliere il momento giusto e valutare cmq se è il caso di fare la restituzione (è sconsigliata per gli psicotici depressi gravi).

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Tecniche del colloquio (13/16): Il primo colloquio

Il primo colloquio è un colloquio di assessment che precede qualsiasi trattamento e non ha la funzione di fornire aiuto, le cui caratteristiche possono variare a seconda di chi lo conduce, al contesto in cui avviene e agli obiettivi del colloquio stesso.


Uso di domande


Le domande sono un aspetto essenziale del primo colloquio, e i diversi tipi di domanda possono provocare diverse modalità di risposta.
Le domande usate nel colloquio si dividono in: aperte, chiuse, interlocutorie, indirette/implicite, proiettive.
Le domande aperte sono quelle domande che facilitano in discorso e di solito iniziano con le parole "come, che, che cosa, quale", ma anche "dove, quando, perchè, chi" (anche se in realtà queste parole introducono domande parzialmente aperte, infatti le domande aperte variano nel grado di apertura (non facilitano il discorso in egual misura).
Le domande che iniziano con "perchè" di solito vengono evitate perchè stimolano reazioni difensive (vengono usate solo quando c'è già un buon contatto col paziente), mentre le domande che iniziano con "chi, dove, quando" spingono il paziente a fornire indicazioni molto specifiche e per questo motivo alcune volte vengono considerate come le domande chiuse.
Le domande chiuse sono quelle domande alle quali si può rispondere con un si o con un no, riducono la verbalizzazione, utili per contenere pazienti troppo verbosi, sono utili per ottenere informazioni specifiche e di solito vengono usate verso la fine del colloquio.
Le domande interlocutorie ("potrebbe, vorrebbe, può, vuole") sono domande a cui si può anche rispondere con un si o con un no, ma che cmq sollecitano un'esposizione più elaborata di sentimenti, pensieri e problemi specifici, vanno impiegate quando si è stabilito un buon contatto e vanno evitate con bambini ed adolescenti.
Le domande indirette/implicite ("mi chiedo, deve essere") consentono di capire se il paziente pensa o sente, evitando però che egli si senta obbligato a rispondere, possono apparire insinuanti o manipolative e quindi vanno usate raramente e solo quando si è stabilito un buon contatto.
Le domande proiettive ("che cosa accadrebbe se") hanno lo scopo di aiutare il paziente ad identificare, esprimere ed analizzare conflitti, valori, sensazioni e pensieri inconsci o parzialmente consci (di norma usano un "se" e invitano alla riflessione), di solito vengono usate per capire quali sono i valori e le capacità di giudizio del paziente.


Le domande non sono una tecnica neutra perchè suscitano reazioni profonde, sulle quali bisogna indagare (esistono reazioni personali ed universali).
Le domande possono mettere il paziente in una situazione difensiva, soprattutto se poste a raffica e possono renderlo meno spontaneo, e l'eccesso di domande può anche stimolare la dipendenza.
Alcune indicazioni per l'uso delle domande:
  • preparare il paziente a rispondere alle domande
  • non usare le domande come forma principale di intervento nel colloquio
  • sintonizzare le domande sui problemi rilevati nel paziente
  • usare le domande per ottenere esempi concreti di comportamento
  • affrontare con cautela le aree sensibili (a volte è meglio evitare le domande e quindi l'acquisizione di informazioni a favore della nascita di un buon rapporto tra clinico e paziente, dato che in alcuni casi le domande possono risultare troppo pesanti per il paziente, l'evitare dimostra tatto e sensibilità e può far nascere l'intesa) 


Obiettivi del primo colloquio


Gli obiettivi principali del primo colloquio sono 3:
  1. identificare, valutare ed analizzare il problema più rilevante per il paziente
  2. formarsi un'idea complessiva dello stile relazionale e della storia personale del paziente
  3. valutare la situazione attuale del paziente
Bisogna quindi per primo scoprire la natura della sofferenza, capire come mai il paziente si è rivolto al clinico (momento di 5/8 minuti dove si ascolta il punto di vista del paziente).
Bisogna stabilire le priorità e selezionare un problema, analizzare un sintomo, usare sistemi di concettualizzazioni dei problemi.

Un sistema di concettualizzazione dei problemi famoso è l'approccio multimodale di Lazarus, detto Basic ID (1976), il quale suggerisce di inquadrare e trattare i problemi tramite 7 modalità specifiche:
  1. Behavior (comportamento): vengono analizzate risposte comportamentali specifiche e concrete
  2. Affect (affetto): comprende sentimenti, emozioni riportate e descritte dal soggetto
  3. Sensation (sensazione)
  4. Imagery (immagini mentali)
  5. Cognition (processi cognitivi)
  6. Interpersonal relationships (relazioni interpersonali)
  7. Drugs (farmaci/sostanze)
Il modello di Lazarus si basa su un'ampia casistica ed è utile per clinici di diverso orientamento teorico, tuttavia attribuisce troppa importanza ai modelli cognitivi.
Qualsiasi sistema che si prefigge di agevolare l'identificazione, l'analisi e la concettualizzazione dei problemi è imperfetto, per questo è importante saper usare più sistemi.

Il modello ABC (1974) è di tipo comportamentista e parte dall'assunto che l'analisi dell'ambiente in cui vive il paziente e l'analisi dei suoi stimoli, permettono di spiegare, prevedere e controllare ogni specifico sintomo.
In questo modello A si riferisce agli antecedenti comportamentali, B al comportamento (o al problema stesso) e C alle conseguenze comportamentali.

C'è poi l'esame diagnostico, dove si ricerca la sindrome, e uno strumento di riferimento per questo scopo è il DSM-IV (1994), il quale fornisce gli standard di classificazione diagnostica.

Nel primo colloquio 3 sono le fonti per esaminare la personalità e le condizioni psichiche del paziente:
  1. la storia personale del paziente
  2. il suo modo di interagire con gli altri
  3. un esame tradizionale delle sue condizioni psichiche
Bisogna quindi capire come accedere alla storia personale del paziente (che tono usare, che domande fare, quando insistere), si possono infatti usare interventi non-direttivi per acquisire la storia personale del paziente (es. lasciandolo libero di parlare) o metodi direttivi (con domande dirette, stando attenti a capire se si parla al passato con l'umore del presente, e quindi capendo quando i sentimenti del passato possono non essere quelli descritti dal paziente), ed in alcuni casi si usano anche dei questionari.
Le aree potenzialmente significative nella storia personale del paziente sono: ricordi d'infanzia, descrizione e ricordo dei genitori, descrizione e ricordo di fratelli/sorelle, rapporti con i coetanei, esperienze nelle scuole, esperienze lavorative, servizio militare, vita affettiva, storia sessuale, aggressività, storia sanitaria, storia psichiatrica/counseling/psicoterapia, alcool e droghe, storia legale, attività ricreative, sviluppo, storia religiosa.

Gli psicoterapeuti ad orientamento psicoanalitico basano l'approccio terapeutico sull'assunto che gli individui si comportano secondo modalità coerenti, dipendenti dalla personalità o dallo stile di vita, mentre gli psicoterapeuti cognitivisti e comportamentisti rifiutano il concetto di personalità e sostengono che il comportamento è una funzione della situazione, cioè della conoscenza che si ha della situazione.
Analizzando gli stili relazionali si nota che le persone tengono ad assumere ruoli ben noti nei rapporti interpersonali, e durante il primo colloquio i dati che aiutano il clinico a raccogliere dati sugli stili relazionali provengono da 3 fonti: come il paziente si è rapportato con gli altri in passato, come funzionano le sue relazioni attuali, come interagisce con il clinico stesso.

L'interpersonal circumplex di Leary (1957) è un modello per identificare lo stile relazionale del paziente.
Questo modello sostiene che le persone si rapportano tra loro lungo un continuum strutturato su 2 dimensioni distinte: affiliazione vs ostilità, e dominanza vs sottomissione, e questo modello serve per identificare velocemente lo stile relazionale prevalente del paziente.
Non è cmq necessario e corretto fissarsi sull'idea di stile di relazione prevalente solo dopo un incontro breve, è corretto invece avere qualche idea su come di solito il paziente si relaziona e soprattutto le reazioni emotive che il paziente suscita negli altri.

Per studiare la dinamica sottostante lo stile relazionale del paziente occorre esaminare la natura delle prime relazioni significative di esso, oppure gli si possono fare domande dirette su che cosa sta pensando, sulle sue emozioni e sui ricordi associati alla sua possibile variazione di stile comportamentale.
Per stabilire se il paziente è adatto ad una terapia di tipo psicoanalitico, si valuta la sua capacità di affrontare una terapia orientata verso l'insight, e cmq in generale, non esiste miglior strumento della relazione tra clinico e paziente per esaminare le tendenze relazionali del paziente stesso.
Cmq valutare la storia personale del paziente e il suo stile relazionale è un compito complesso che può richiedere più sedute.

Successivamente si studia la situazione attuale del paziente, chiedendogli quale tipo di vita conduce attualmente, e questo è anche importante perchè è bene non concludere un colloquio parlando del passato.
Si parla anche del futuro nel primo colloquio, perchè il paziente si rivolge al clinico per la speranza di un futuro migliore e quindi il futuro fa parte degli obiettivi della terapia, e parlare degli obiettivi della terapia durante il primo colloquio pone le premesse per la sua conclusione.
Con una chiara definizione del mutamento desiderato, clinico e paziente possono verificare insieme il progresso della terapia, e stabilire assieme quando si sta avvicinando la sua conclusione.


Fattori che influiscono sulle modalità del primo colloquio


E' impossibile analizzare tutti gli argomenti prefissati nei 50 minuti del primo colloquio, quindi bisognerà fare delle scelte, su quali argomenti mettere in secondo piano o accantonare.

I questionari vengono usati per reperire velocemente informazioni, ma non bisogna abusarne perchè possono rovinare l'intesa con il paziente, tuttavia, questionari brevi e discreti possono essere un buon mezzo per preparare il clinico all'incontro col paziente (facendogli individuare da subito alcune aree di maggiore interesse).


Spesso le informazioni da reperire sono condizionate dal contesto istituzionale, ad esempio ospedali psichiatrici danno importanza alle informazioni di carattere diagnostico e alla storia del paziente, mentre in altri contesti ci si concentra sul problema e sul sintomo.
Quindi alla fine del primo colloquio il clinico dovrebbe tenere presenti le necessità dell'istituzione da cui dipende.

Il fattore che cmq influisce maggiormente sulle informazioni reperite è l'orientamento teorico del clinico: i comportamentisti e cognitivisti si focalizzano sui problemi del momento, gli psicoanalisti prediligono la storia personale del paziente, quelli orientati sulla persona danno importanza alla situazione presente e come il paziente vive se stesso.
Inoltre quelli orientati sulla persona e gli psicoanalisti sono meno propensi all'uso di questionari o di procedure computerizzate.

La formazione e l'affiliazione professionale del clinico possono avere un'influenza determinante sulle informazioni raccolte.
Gli psichiatri sottolineano l'importanza del colloquio psichiatrico e l'intervista diagnostica basata sul DSM-IV, i clinici sono interessati all'assessment e alla diagnosi ma sottolineando l'importanza della valutazione del problema e dell'analisi comportamentale e cognitivista, quelli orientati al counseling favoriscono l'ascolto e le strategie d'aiuto, mentre gli assistenti sociali sono interessati alla raccolta di dati inerenti allo sviluppo, alla pianificazione del trattamento e alle capacità d'ascolto.

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Tecniche del colloquio (12/16): La sfiducia e la diffidenza

Il primo colloquio è una situazione conoscitiva unica e specifica, la sua particolarità sta nel fatto che è una condizione nuova in cui non sono ancora in atto modalità di relazione già note e organizzate.
In questa prima fase, le modalità che il paziente usa sono un indizio di come tenderà ad affrontare lo stesso colloquio, e può quindi essere interessante capire a chi il paziente idealmente si rivolge, in che modo, con che emozioni, con quali aspettative, attitudini e capacità.


Il primo colloquio come esame obiettivo


La capacità del clinico più esperto è riconducibile ad una migliore ed immediata comprensione ed utilizzazione dei primi elementi che il paziente porta nel colloquio, e alle modalità di passaggio dalla presentazione di sè da parte del paziente al colloquio clinico vero e proprio.
Il clinico più esperto ha una maggiore sicurezza derivata da una già consolidata professionalità e dalla possibilità di confronto con le esperienze e casistiche precedenti.
E' capace di più obiettivazione: chi si sente meno minacciato nella sua identità professionale e chi è in grado di porsi in una condizione di apprendimento (obiettivazione non difensiva).
L'inizio, il primo colloquio, è una situazione aperta e non preordinata, ed è importante che il principiante consideri questa situazione iniziale come un setting la cui specifica neutralità è proprio quella di non parteggiare per una scelta già determinata dal solo fatto che il paziente si è rivolto ad uno psicologo clinico.



Psicologizzazione precoce e ritualizzazione


Se il clinico cerca di modificare la situazione di ansietà iniziale attraverso l'impostazione di uno schema onnicomprensivo (psicologizzazione) e all'interno del quale allearsi (ritualizzazione), può creare un ostacolo ad un proficuo utilizzo di questa situazione.
Per rituale si intende quindi una modalità da compito che non si struttura sulla base di quanto il paziente comunica, ma sull'adeguamento del paziente stesso a tale modalità.
La psicologizzazione può essere usata precocemente già dal paziente, come speranza che la psicologia magicamente possa ridurre la sofferenza.



La sfiducia e la diffidenza


Per il paziente la diffidenza può essere una necessità irrinunciabile di badare a se stesso e di voler esser certo delle sue scelte, e di contrastare il pericolo di affidarsi alla cieca (es. paura di essere imbrogliato).
La sfiducia può far capire che il paziente ha aspettative di interventi di tipo diverso, magari dovute ad interventi subiti in precedenza.
Le manovre dello psicologo che vuole conquistare a tutti i costi la fiducia del paziente nel primo colloquio possono danneggiare l'intero iter.



La possibilità di non capire


Lo psicologo inesperto può commettere l'errore di voler a tutti i costi capire troppo fin dall'inizio, vivendo il paziente nel modo sbagliato e rischiando di indurlo ad usare schemi prestabiliti e quindi a non essere spontaneo e naturale.
Anche la psicologizzazione e la ritualizzazione precoce impediscono il passaggio allo strutturarsi del colloquio, e si parla di arte del primo colloquio, come capacità di cogliere la modalità più utile per quel determinato paziente, nel clima emotivo che viene creandosi e con gli strumenti a disposizione.
E' necessario far capire al paziente che ciò che egli comunica è ciò che conta, anche quando è necessario spostare la sua attenzione su altri elementi, e bisogna anche tener conto che oltre alla sfiducia, il paziente possa anche non capire.


Gli stereotipi sono i maggiori ostacoli alla formazione del primo colloquio ed essi sottendono le security operations, che sono ad esempio il doversi dimostrare amichevoli o intelligenti, come stereotipo dell'alleanza e della fiducia, cosa che non sempre è una cosa naturale e che quindi può essere controproducente se forzata.
Questi stereotipi possono indurre a diagnosi frettolose.
Bisogna inoltre imparare dal proprio paziente e anche dalle difficoltà che si incontrano durante il colloquio.

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Una vita tranquilla

Una vita tranquilla è un film drammatico del 2010 diretto da Claudio Cupellini, con Toni Servillo, Marco D'Amore, Francesco Di Leva, Juliane Köhler, Maurizio Donadoni, Leonardo Sprengler, Alice Dwyer.

Una vita tranquilla
Trama
Rosario è un napoletano di 50 anni che da 15 anni vive in Germania.
Sposato con una bella donna tedesca e con un figlio, Rosario gestisce un hotel e conduce una vita tranquilla.
Il passato di Rosario però nasconde delle macchie oscure, e quando due ragazzi napoletani giungeranno dall'Italia fino al suo Hotel, il passato di Rosario riemergerà.

Recensione
Un ottimo film con Tony Servillo sul genere mafia/camorra.
Non è un film sanguinario fatto di spariatorie e crimini vari, ma un film che parla della storia di un uomo emigrato all'estero per cambiare vita, il cui passato però torna a perseguitarlo.
Ritmo narrativo molto calmo ma mai noioso, ottimo film a mio avviso, anche se nel finale scade un po' nel banale.
Da vedere assolutamente per gli amanti del genere criminalità organizzata :p

Link alla scheda del film su wikipedia

martedì 21 giugno 2016

Come usare Chromecast

Se non sai che cos'è Chromecast, eccoti una definizione di massima: Google Chromecast è un apparecchio hardware che consente alla tua televisione, non necessariamente smart tv, di vedere un video, delle foto o sentire della musica trasmessa tramite wifi dal tuo computer, tablet, smarphone.

Grazie a chromecast infatti, è possibile vedere in streaming ciò che il tuo pc con google chrome sta trasmettendo in quel momento.
Che cosa vuol dire questo?
Semplice: per tutti gli amanti del download da internet (di file legali eh?), soprattutto per chi preleva i video dai siti di streaming online per poi passarli alla chiavetta usb per poterli guardare con la televisione, grazie a google chrome cast sarà possibile saltare qualche passaggio e vedere direttamente i film in streaming comodamente sul proprio televisore.

Vediamo dunque come usare google chromecast.

Che cosa ti serve?
  1. L'apparecchio google chromecast, acquistabile online o in qualsiasi negozio di elettronica/informatica
  2. Una connessione wifi decente
  3. Un televisore con almeno una porta hdmi libera

Come usare Chromecast

Come funziona google Chromecast?
E' molto semplice, basta seguire i seguenti passaggi:
  1. Collegare il dispositivo chromecast all'alimentatore di corrente ed alla tv tramite il cavo hdmi
  2. Cambiare l'ingresso della tv selezionando come sorgente la porta hdmi a cui è collegato chromecast
  3. Configurare chromecast

I primi due punti sono ovviamente semplici da eseguire, mentre sul terzo punto occorre soffermarsi un momento per dare qualche specifica in più su come configurare chromecast.

Come ti dirà il tuo televisore non appena selezionerai come sorgente il canale dedicato a chromecast, collegati al seguente indirizzo:
chromecast.com/setup

Chromecast sulla tv

Come indica la pagina in cui si atterrà, sarà possibile installare il software di chromecast per smarphone (android o ios), tablet, oppure per pc.

Io ad esempio ho provato ad installare chromecast su smarphone android (il cui nome ufficiale dell'app è Google Cast), se invece vuoi installare chromecast direttamente su pc leggi qui.

Ecco il link di chromecast per android:
https://play.google.com/store/apps/details?id=com.google.android.apps.chromecast.app&hl=it

Dopo aver avviato chromecast, verrà cercato automaticamente il dispositivo, ed una volta trovato, vi verrà chiesto se effettuare un chromecast o un chromecast audio.

chromecast

Visto che vogliamo vedere un video sulla nostra tv, clicchiamo su chromecast.

Se ti verrà chiesto di dare i permessi a chromecast di accedere alla posizione del dispositivo, clicca su Consenti.
Quando apparirà l'icona del tuo chromecast con un numero identificativo, con indicato "Configurazione necessaria", clicca su Configura.

configura chromecast

Ti verrà richiesto di cliccare su Configura, fallo e finirai in una schermata dove ci sarà scritto un codice.
Se vedi il codice mostrato sul tuo telefonino anche sulla tua tv, clicca su Il codice è visualizzato.

Codice di conferma

Nella schermata che si aprirà, ti verrà chiesto di dare un nome al tuo dispositivo chromecast, ed eventualmente scegliere di usarlo in modalità ospite (spuntando si, consentirai di collegarsi tramite chromecast anche agli altri dispositivi presenti nella stanza), cliccare infine su Imposta nome.

imposta nome

Adesso viene la parte più impegnativa (per modo di dire).
Bisogna selezionare la rete wifi a cui collegarsi.
Sceglierne una dalla lista o selezionare la voce Altra e poi inserire il nome a mano della rete (se invisibile), poi immettere la password ed infine cliccare su Imposta rete.

impostare rete

Se avrai inserito tutte le informazioni correttamente, partirà un video introduttivo sul tuo televisore, e se necessario, verrà scaricato ed installato un aggiornamento del software.
Al termine dell'aggiornamento, chromecast sulla tv verrà riavviato e dovrai attendere il completamento della configurazione di sistema.
Verrà infine visualizzato il messaggio "Sei pronto per trasmettere".

Clicca su sfoglia le tue app per chromecast per vedere con quali app puoi trasmettere dal cellulare alla tv.
Nel mio caso ho:
  • google photos
  • google play movies
  • google+
  • kmplayer
  • rai.tv
  • youtube
  • google play music

Ma ovviamente potete anche installare altre app per trasmettere tramite chromecast (cliccando su Trova APP).

Quello che devi fare ora è, aprire un app compatibile con chromecast e cliccare sul pulsante 'trasmetti' e poi cliccare sul nome del tuo dispositivo chromecast quando ti chiede dove.

trasmettere dal cellulare

Facendolo ad esempio con google foto potrò trasmettere le foto ed i video presenti sul mio telefonino (o raggiungibili tramite cloud google) al mio televisore.

Ovviamente se trasmetterete un video alla tv tramite chromecast, trasmetterete anche l'audio... ho appena provato e ho visto la diretta tv rai passata dal mio cellulare alla tv :p

Per interrompere una trasmissione, clicchiamo sempre sul simbolino di chromecast e poi sul bottone Interrompi trasmissione.
Così facendo la televisione tornerà a mostrare la schermata di default di chromecast.

Come si fa a trasmettere dal pc alla tv con chromecast?
Rispondo anche a questa domanda, forse la più importante della guida :)
Per trasmettere un film dal computer alla tv con chromecast, occorre avere installato google chrome sul proprio computer.
Inoltre, bisogna avere installato su chrome l'estensione Google Cast. Io non l'avevo e c'ho perso mezz'ora per cercare di capire dove fosse il famigerato tasto per trasmettere :p
Aprire dunque chrome ed andare nella pagina web che si vuole trasmettere sulla televisione (ad esempio un video su youtube), poi cliccare sul tasto chromecast in alto a destra e selezionare il dispositivo al quale effettuare la connessione.

dal pc alla tv con chromecast

Ed ecco fatto, ora sul tuo televisore apparirà la finestra del browser del tuo pc e potrai vedere comodamente seduto sul divano tutti i filmati e le foto che vorrai.
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Aggiungere suono di notifica su Samsung Galaxy S6

Per aggiungere un suono di notifica su un Samsung Galaxy S6 con sopra Android non c'è un tasto seleziona suono o aggiungi, come sarebbe stato logico aspettarsi, ma bisogna invece agire sul file system.
Non preoccupatevi però, è comunque un'operazione molto semplice.

Prima di tutto, procuratevi il suono che volete usare come notifica dei messaggi in formato mp3, suono che potrete abbinare anche a qualsiasi altro tipo di notifica del vostro cellulare.

Ora non dovrete fare altro che copiare il file mp3 dentro la cartella media / audio / notifications.

Adesso andate pure in Impostazioni, poi in Suoni e vibrazioni, Suono di notifica (Suoneria notifica predefinita o Notifiche di Messaggi o Notifiche di Calendario o Notifiche di E-mail), e troverete nella lista dei suoni il vostro mp3 da impostare come predefinito per le notifiche.

Attenzione però, il file mp3 nella lista dei suoni di notifica prenderà il nome che questi ha nei metatag dell'mp3, e quindi non lo troverete in lista chiamato con un nome tipo canzone.mp3.
Ve lo dico perchè io non riuscivo a trovare l'mp3 appena caricato, pensando che questa procedura non funzionasse, invece il file aveva solo un nome diverso :)

Per caricare un file mp3 sul vostro smarphone galaxy s6 (o quello che è) potete collegare il telefono al pc, oppure usare un app file manager.

Come fare uno screenshot con il Samsung Galaxy S6

Sei un fortunato possessore di un Samsung Galaxy S6?
Bene, allora sappi che con il tuo cellulare puoi fare tutti gli screenshots che vuoi :)

Uno screenshot è un'immagine che cattura tutto quello che c'è sullo schermo del tuo telefonino in un determinato momento, un'istantanea dello schermo insomma.

Questo breve tutorial ti spiegherà come fare uno screenshot con il Samsung Galaxy S6, ma la stessa procedura vale anche per il galaxy s6 edge ed altri dispositivi con su android.

Per catturare lo schermo del tuo smarphone con il Samsung Galaxy S6 android, basta cliccare la seguente combinazione di tasti:

Tasto Home + Tasto spegnimento accensione (CONTEMPORANEAMENTE)


Come fare uno screenshot con il Samsung Galaxy S6

Quindi, per fare uno screenshot con il galaxy s6 basta tenere premuto per un secondo il tasto home ed il tasto accensione/spegnimento contemporaneamente.
Lo schermo avrà una breve animazione che mostrerà la cattura dello schermo, ed apparirà un'iconcina in alto a sinistra nello schermo con un'icona che simboleggia l'avvenuta cattura immagine.

Troverai poi l'immagine salvata nella cartella pictures/screenshots o nel percorso DCIM/Screenshots.

ps un altro metodo per fare lo screenshot con i samsung galaxy è quello di scorrere con il palmo della mano sul display del telefonino da sinistra a destra... provare per credere :)

Alla ricerca di Nemo

Alla ricerca di Nemo è un film d'animazione/avventura/commedia del 2003 diretto da Andrew Stanton, Lee Unkrich.

Alla ricerca di Nemo
Trama
Nemo è un piccolo pesce pagliaccio, unico sopravvissuto della covata di sua madre.
La vita del piccolo nemo trascorre felice e tranquilla nei fondali del mare, almeno fino a quando non decide di allontanarsi imprudentemente da casa.
Catturato e portato in Australia come pesce d'appartamento, Nemo però non finirà i suoi giorni in un acquario, perchè suo padre, Marlin, farà di tutto pur di riportarlo a casa.
Aiutato da Dory, un pesce chirurgo con gravi problemi di memoria, Marlin partirà per un lungo viaggio alla ricerca di Nemo.

Recensione
Alla ricerca di Nemo è un bellissimo film d'animazione della Disney.
So cosa state pensando: film d'animazione = film per bambini.
Invece non è propriamente così.
Alla ricerca di Nemo è infatti un film adatto a tutti, con una trama semplice ed interessante, per i più piccoli e per gli adulti rimasti un po' bambini, che amano sognare.
Musiche avvincenti ed una stupenda grafica completano il quadro su questo bellissimo film targato Disney.

Link alla scheda del film su wikipedia

lunedì 20 giugno 2016

1000 Post!!!

Secondo festeggiamento dell'anno per il blog Oggi è un altro post.
Dopo aver festeggiato il primo compleanno del blog, eccoci qui a brindare per il millesimo post!

1000 Post!!!

1000 post in poco più di un'anno di attività non sono male, considerando che questo sito lo aggiorno tutto da solo. Tuttavia posso fare sicuramente di più, dato che ho iniziato a postare più articoli al giorno solo da pochi mesi.

Ma questo si può ancora chiamare blog?
Un blog in effetti è un sito web dove una persona scrive un articolo interessante e tutti gli altri commentano a ruota in stile social network, come una sorta di diario personale.
Qui invece i commenti sono ben pochi, anche se le visite sono comunque molte (stando a google analytics ;)), questo vuol dire che gli articoli bene o male sono apprezzati :p

Quindi un saluto a tutti i visitatori anonimi e non, dal vostro amato Oggi è un altro blog... ehm, post :)

Ci rivediamo alla prossima ricorrenza, che potrà magari essere il centomillesimo visitatore, o anche no... vediamo :p
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Tecniche del colloquio (11/16): Evoluzione storica del colloquio

I colloqui clinici fatti da operatori di formazione diversa sono differenti, e gli elementi di diversità sono:
  • la scelta delle aree di indagine
  • la tecnica di domanda
  • il modo in cui l'operatore si relaziona col paziente
In generale:
  • il colloquio è lo strumento d'elezione per qualsiasi operatore della salute mentale
  • il colloquio assume caratteristiche specifiche in base al modello etiopatogenetico del clinico e la sua conduzione dipende dal modello di disturbo psichico prescelto
  • il colloquio è uno strumento di ricerca, usato per confermare o accantonare alcune ipotesi
  • il colloquio è lo strumento d'elezione per molte tecniche psicoterapeutiche
I colloqui vengono classificati in base:
  • al loro scopo
  • al tipo di modello etiopatogenetico del clinico
  • ad alcune caratteristiche della relazione col paziente (es. colloqui direttivi e non direttivi)
  • al contesto terapeutico in cui sono usati
  • ad un elemento clinico specifico del paziente (colloquio con paziente violento, timido, ecc...) 


Gli anni 40


All'inizio degli anni 40 il disturbo psichico è considerato un disturbo di tipo medico, per il quale può essere indicato anche il ricovero in una struttura ausiliare.
Il modello medico di disturbo psichico è considerato come un modello meccanico (la parte malata della psiche equivale alla parte malata dell'organismo), ma progressivamente la malattia mentale diventa un disturbo di interesse psicologico.
In questi anni, lo psicologo clinico non è deputato a curare perchè lo spazio terapeutico è in mano ai medici e solo progressivamente questa cosa cambia e passa in mano agli psicologi, a causa dei troppi casi presenti durante la seconda guerra mondiale che i medici non riescono a gestire e grazie a nuove tecniche terapeutiche di origine non medica.
Con l'avvento di Hitler molti psicologi e psicoanalisti fuggono in America, dove trovano un terreno molto fertile dato dalla psichiatria americana, e successivamente anche le strutture manicomiali iniziano a ricevere pesanti critiche, a causa dell'aspetto segregante e dei limiti terapeutici.
All'inizio nonostante i tentativi innovativi, i trattamenti continuano a basarsi sull'uso di farmaci sedativi e sul ricorso a terapie somatiche, e solo alla fine degli anni 40 (1947) il National Mental Act sancisce la necessità di formare degli operatori per trattamenti non esclusivamente medici.


Manca un sistema diagnostico consensuale e lo schema diagnostico più usato è quello kraepeliniano, dove i disturbi sono considerati entità fisse con andamento prevedibile, e assieme a questo modello si usano alcuni di stampo psicoanalitico.
Successivamente Glover individua l'esistenza di nessi tra disturbo psichico ed istanze del modello strutturale, creando le basi per la nosografia psicodinamica.
Inizia ad essere al centro dell'attenzione la possibilità di individuare il trattamento più adeguato per il paziente, anche se gli strumenti a disposizione sono ancora pochi e i risultati sono ancora scarsi, è cmq l'esordio della teoria clinica (il primo psicologo clinico compare negli anni 50).
Nel modello del colloquio non psichiatrico, il focus si sposta dalla raccolta dei dati alla qualità della relazione con il paziente, tuttavia il tentativo di esportare il modello psicoanalitico negli ospedali ha molti problemi (vengono cmq usati il transfert e il controtransfert), e alla fine degli anni 40 si tenta invece di differenziare il colloquio clinico dall'esame psichico.
Infine l'attenzione si sposta dai dati oggettivi, che contraddistinguono l'esame psichico, ai dati soggettivi, che diventano un elemento integrante per la formulazione della diagnosi.



Gli anni 50-60


In questi anni, compare il primo sistema classificatorio consensuale (DSM-I) si modifica il modello medico di disturbo psichico (da meccanico a biomedico) e vengono cercati modelli alternativi.

Il DSM-I viene pubblicato nel 1952 con l'obiettivo di fornire ai diversi operatori uno strumento di comunicazione consensuale.
L'orientamento prevalente è quello di A. Meyer, che contestualizza i disturbi psichici come reactions, ovvero come reazioni psicobiologiche a stress esistenziali muticausali.
In questi anni: compaiono gli ansiolitici, gli antidepressivi, il litio viene usato per curare gli episodi maniacali e depressivi, escono i primi farmaci antipsicotici per il trattamento della schizofrenia, nascono alternative al manicomi (es. day hospital, comunità terapeutica), nascono i primi modelli sociogenetici del disturbo psichico, i modelli behavioristi, umanistici, esistenziali, compaiono psicoterapie brevi, i trattamenti familiari e le terapie di gruppo, nascono nuove categorie (pazienti psicosomatici, con disturbo della condotta, ecc...).
Il colloquio quindi viene usato in modo diverso, lo strumento cambia in base allo scopo, alla specificità della relazione con il paziente, alle caratteristiche del paziente e al contesto terapeutico.
Nel 1955 il Mental Health Act stabilisce che l'obiettivo del trattamento dei pazienti affetti da gravi disturbi psichiatrici è quello di metterli in condizione di vivere in modo normale, inseriti nella comunità.

Si ha un evoluzione del modello di colloquio, dove i dati che arrivano dall'esame psichico vengono integrati con quelli della struttura della personalità.
Il colloquio psichiatrico cambia, non è più sufficiente un colloquio di tipo domanda e risposta, ma si ha il libero scambio tra psichiatra e paziente, mentre nell'ambito psicoanalitico si passa dall'attenzione nel primo colloquio dai dati associativi ai dati oggettivi.
Nei colloqui psicoanalitici di questi anni, bisogna:
  • raccogliere dati anamnestici che emergono dalla descrizione della vita del paziente
  • conoscere i motivi che hanno portato il paziente a cercare aiuto e le condizioni della sua vita attuale (interessi, ecc...)
  • comprendere quanto il problema del paziente sia interno o reattivo all'ambiente
  • studiare i sintomi e cercarne le connessioni con gli aspetti della vita del paziente
  • far emergere tramite domande, gli elementi emotivi inconsci
La funzione dell'intervista psicoanalitica diagnostica è quella di aiutare il clinico a ricordare i punti essenziali da indagare, inoltre, tanto più il paziente è disturbato e tanto è maggiore l'importanza di informazioni supplementari provenienti da familiari o altri operatori.

Si ipotizza che il disturbo psicosomatico sia più facilmente diagnosticabile e trattabile usando un modello psicoanalitico, e si pensa che bisogna osservare più che modificare il comportamento del paziente.
L'anamnesi associativa è un metodo per mantenere la situazione del colloquio non contaminata dai pregiudizi e dalle fantasie del medico, e per scoprire le fantasie inconsce del paziente, i suoi desideri, le sue inclinazioni, ed il rapporto tra tutto questo e quello che il paziente lamenta, dove bisogna non solo registrare ciò che il paziente ha detto, ma anche come lo ha detto.
In questo metodo si chiede al paziente di dire non solo ciò che pensa, ma anche ciò che sente, si evitano domande chiuse e si fanno interventi finalizzati a facilitare la comunicazione (tecnica associativa), inoltre, il clinico ha un ruolo passivo.

H.S. Sullivan (1954) propone un modello di colloquio per il disturbo psichico che si basa su 3 presupposti teorici:
  1. non si può mai isolare una personalità dal complesso di relazioni interpersonali in cui la persona vive
  2. la personalità si manifesta nelle situazioni interpersonali e in nessun altro modo
  3. gli atti di una persona hanno origine da un complesso di fattori e la nostra osservazione di questi atti è influenzata dalle nostre esperienze precedenti
Quindi l'attenzione si posta dall'intrapsichico all'interpersonale.
Sullivan cambia la definizione di disturbo mentale, dicendo che per avere un senso deve arrivare a coprire tutto il campo degli atti inadeguati rispetto alle relazioni interpersonali.
In questo modello il clinico è un osservatore-partecipante (con ruolo attivo di conduttore che fa domande), che instaura un clima emotivo favorevole per tentare di modificare i comportamenti del paziente.
I presupposti del rapporto esperto cliente sono:
  • il paziente è estraneo, e va trattato come tale
  • le relazioni interpersonali sono soggette a mutamenti, anche nel corso del colloquio
  • il paziente è una persona simile allo psichiatra, e come tale deve essere trattato
  • lo psichiatra deve dare informazioni al paziente che gli consentano di capire il proprio funzionamento
M. Gill (1954) vuole creare un modello di colloquio che sia al di là dei vari orientamenti (psicoanalitico, psichiatrico, ecc...), ma che sia uno strumento adeguato alla realtà clinica del paziente.
Secondo Gill:
  • il colloquio è uno strumento diagnostico e terapeutico di elezione in psichiatria, con l'obiettivo di instaurare un rapporto tra 2 persone sconosciute, di dare una valutazione della situazione psicosociale del paziente e di rafforzare il desiderio del paziente di intraprendere la terapia, e le finalità del colloquio sono la formulazione della diagnosi e l'indicazione del trattamento, mentre le aree da indagare riguardano la natura del disturbo, la motivazione al trattamento, l'analisi dei fattori interni ed esterni
  • l'andamento del colloquio è influenzato dalla personalità degli interlocutori, dalle reciproche percezioni di ruolo, dagli scopi e dalla tecnica usata
  • la situazione del colloquio è ansiogena per entrambi gli interlocutori, che mettono in atto azioni difensive in base alla loro personalità
  • fare bene il primo colloquio significa ottenere informazioni indispensabili per la diagnosi
  • la tecnica di conduzione del colloquio cambia quando si passa dalla fase diagnostica a quella finalizzata all'indicazione 


Dalla fine degli anni 60 ai primi anni 90


In questo periodo diminuisce l'importanza attribuita al colloquio clinico perchè la teoria clinica ed i diversi modelli di disturbo psichico subiscono molti cambiamenti, e con Bateson e la scuola di Palo Alto, il disturbo psichico è considerato una conseguenza di una distorsione della comunicazione e delle interazioni tra i membri del gruppo, e quindi perde la connotazione medica.
Si riduce il potere esplicativo dei modelli organogenetici e psicogenetici ed aumenta quello dei sociogenetici.


Gli indirizzi in psichiatria di questo periodo sono:

scuola teoria di riferimento campo di applicazione
psichiatria biologica medicina farmacologia, studi genetici, ricerche sul SNC
psichiatria psicoanalitica concetti psicoanalisi freudiana, psicologia dell'Io psicoterapia ad orientamento psicoanalitico e psicoanalisi
psichiatria interpersonale psicologia sociale, psicologia evolutiva, teoria interpersonale psicoterapia con i pazienti schizofrenici, depressi o altri quadri psicopatologici gravi
psichiatria sociale sociologia, antropologia, altre scienze sociali studi epidemiologici, psichiatria sociale e di comunità, sociologia
psichiatria cognitivo-comportamentale learning theory, psicologia cognitiva, comportamentismo terapie comportamentali, terapie cognitive, trattamento sintomatico

Modello organogenetico: psichiatria biologica
Si considera disease qualsiasi condizione che sia associata a fastidio, dolore, invalidità, morte o una maggior propensione a tali condizioni, che sia considerata dal medico e dal profano, propriamente di responsabilità medica.
Per disease si intende un cluster di sintomi e/o segni che hanno andamento più o meno prevedibile, inoltre il termine malattia mentale include tutte le deviazioni che possono portare la persona a diventare paziente, e si intende la malattia mentale come disease associato ad una sindrome clinica o legato ad un disturbo biologico.

Modello sociogenetico: antipsichiatra
Gli psichiatri non si occupano di malattie mentali e del loro trattamento, ma hanno a che fare con difficoltà di carattere personale, sociale ed etico.

Modello psicogenetico: psichiatria psicoanalitica
I fenomeni mentali sono il risultato di un conflitto che deriva da forze inconsce opposte che possono essere un desiderio e una difesa contro tale desiderio, oppure diverse parti intrapsichiche con finalità differenti, oppure un impulso in contrasto con la consapevolezza interiorizzata delle richieste della realtà esterna.

Modello psicogenetico: pragmatica della comunicazione
La condizione del paziente non è statica, ma varia al variare della situazione interpersonale e dell'ottica preconcetta dell'osservatore, quindi si considerano i sintomi psichiatrici come un comportamento che si adegua a una interazione in corso.

Modello psicogenetico: organizzazioni cognitive personali
Ottica sistemico-processuale dove si pensa che le molte manifestazioni psicopatologiche siano ricondotte a pochi modelli di chiusura organizzazionale, i quali possono produrre molti modelli cognitivi, emotivi e motori nel tentativo di ordinare specifiche oscillazioni perturbative.

Alla fine degli anni 60 esistono operatori di diversa formazione (psichiatra, psicologo clinico, psicoterapeuta) che spesso propongono metodologie d'intervento in conflitto tra loro, ci sono diverse strutture di ricovero e molti psicofarmaci in circolazione.
Ogni modello cerca di circoscrivere il proprio territorio ed il confronto e l'integrazione è molto problematico, c'è un clima di guerra (es. psichiatri vs psicoterapeuti vs psicologi clinici) e la conflittualità spesso è presente anche all'interno dello stesso modello.
Le strategie cliniche sono ancora limitate e la sofferenza psichica è ancora di difficile definizione, si ha difficoltà quindi a dare le definizioni anche per colpa di questi conflitti, e chi fa parte di una determinata scuola definisce in un certo modo e opera metodologicamente secondo il credo dei propri insegnanti, in contrasto con altre scuole.

Alla fine degli anni 60 prevale l'impronta sociogenetica antipsichiatrica, che ricollega la malattia mentale a disfunzioni sociali e usa di più concetti come sentimenti, intuizione, empatia, incontro, sensibilità e spontaneità al posto di concetti come analisi, verifica e valutazione.
In questo modello, la malattia mentale è vista come un insieme di comportamenti politicamente definiti e socialmente rinforzati.
In questo periodo si provano le forme alternative di ricovero (perchè si criticano i manicomi come case di reclusione), come day hospital, half-way houses, comunità terapeutiche, night hospital, ma sopraggiungono problemi conseguenti alla deistituzionalizzazione (ci sono ad esempio molti malati che vagano per le strade).

Col tempo il modello sociogenetico perde di interesse e riemerge il modello medico con l'interesse per la diagnosi, e nel 1968 esce il DSM-II, che però presenta diversi limiti: è vago, incoerente, debole empiricamente, e quindi di scarsa utilità sia per i clinici che per gli psichiatri che si occupano della ricerca.
Nel 1980 esce il DSM-III, strumento nosografico-descrittivo di matrice psichiatrica, costituisce l'affermazione del modello medico di disturbo psichico.
Nel 1986 esce il DSM-III-R, che modifica i precedenti criteri diagnostici, cambia la classificazione di alcuni disturbi come la schizofrenia, i disturbi affettivi, i disturbi nevrotici e i disturbi di personalità.

Si afferma la visione multideterministica del disturbo psichico, che afferma che l'etiologia della maggior parte dei disturbi è multipla, ha quindi basi biologiche, sociali, psicologiche e quindi va curata con le metodologie delle varie scuole.
E' vero cmq che ogni clinico usa un modello diagnostico specifico per la propria scuola e quindi ad esempio esistono 3 modelli con trattamenti diversi per il disturbo borderline.
La psicoterapia è la classe vincente (al posto della psichiatria), e da li ogni tecnico usa le metodologie della propria scuola di appartenenza.

Si inizia a pensare alle indicazioni e alle controindicazioni nell'utilizzo delle varie metodologie, e i presupposti per l'utilizzo di tali metodologie sono:
  • le psicoterapie usano metodologie diverse tra loro che prendono in considerazione aspetti diversi della vita del paziente
  • le psicoterapie non producono gli stessi effetti
  • le psicoterapie non sono procedure innocue
  • esistono molte psicoterapie e spetta allo psicologo di scegliere quella adeguata
I trattamenti possono avere anche esito negativo e ciò può dipendere dal paziente, dal terapeuta, dalla qualità della loro interazione, dagli errori nell'uso della tecnica o dalla sua non idoneità, e quindi la scelta del trattamento diventa molto importante, tanto che vengono creati alcuni modelli per formalizzarla: il modello multimodale, il modello transteoretico (uno stesso sintomo in pazienti diversi può essere disturbante a livelli diversi), il modello sistematico eclettico (prende in considerazione la complessità del sintomo, il potenziale di reattività, lo stile difensivo del paziente), il modello differenziale (considera anche interventi non proprio psicoterapeutici ed è molto flessibile).

Dalla fine degli anni 60 fino agli anni 90 gli aspetti tecnici dello strumento e il suo legame con la teoria clinica perdono significato, nascono nuove terapie farmacologiche, gli operatori prestano poca attenzione al colloquio, che prende un significato specifico solo nell'ambito della tecnica terapeutica.
I lavori sul colloquio si dividono in:
  • colloqui che usano il modello nosografico-descrittivo del DSM
  • colloqui specializzati, organizzati in base ad uno specifico orientamento teorico
Si passa dal colloquio insight-oriented al colloquio symptom-behavior-oriented che presuppone che i disturbi psichiatrici si manifestano con set caratteristico di segni, sintomi e comportamenti, che abbiano un andamento prevedibile, una specifica risposta al trattamento e una certa familiarità, e l'obiettivo di questo tipo di colloquio è quello di classificare i disturbi del paziente in base a categorie diagnostiche definite.

Il modello multifasico di E. Othmer e S.C. Ohtmer è finalizzato a formulare una diagnosi nosografica DSM, dove si afferma che il paziente ha i pezzi del rompicapo ed il clinico conosce il disegno che deve ricomporre.
Per formulare una diagnosi con questo modello bisogna:
  1. osservare gli indizi diagnostici
  2. individuare il problema
  3. fare il follow-up delle impressioni iniziali
  4. fare anamnesi remota (raccogliere una anamnesi premorbosa per poter indagare sull'andamento del disturbo)
  5. ottenere un quadro completo
  6. fare la diagnosi
  7. prognosi
L'ordine di questi punti è spesso determinato dal paziente, per questo motivo non esiste una modalità di colloquio adeguata per tutti i pazienti.

Vengono creati colloqui strutturati e semi-strutturati con lo scopo di risolvere il problema della scarsa validità e attendibilità diagnostica.
Si cerca di costringere il clinico a raccogliere i dati in maniera preordinata e obbligarlo a riferirsi a categorie diagnostiche precise che attribuiscono lo stesso significato a gruppi di sintomi, ci sono quindi dei protocolli da seguire con domande precise da fare.

I colloqui di tipo psicodinamico si dividono in colloqui basati sulla dinamica delle strutture intrapsichiche e colloqui centrati sulle relazioni oggettuali e il funzionamento interpersonale.
Gli obiettivi di questi colloqui sono di ottenere elementi significativi (informazioni) e creare un'atmosfera che permetta al materiale inconscio di emergere.
La relazione che si instaura col paziente non è definita a priori, ma vuole cmq permettere al paziente di mostrasi per come è, e quindi il colloquio va condotto in base alle caratteristiche del paziente, ed il ruolo del clinico è quello dell'interlocutore che non interviene attivamente nel colloquio, inoltre vanno valutate le qualità delle relazioni oggettuali e l'organizzazione del mondo delle rappresentazioni interne.
Le funzioni dell'Io da valutare nel colloquio sono: rapporto con la realtà, regolazione e controllo delle pulsioni sessuali e aggressive, processi di pensiero, meccanismi di difesa, funzioni autonome, funzioni sintetiche, relazioni oggettuali.
Le funzioni del Super-Io da valutare sono invece: coscienza, ideale dell'Io.
Il risultato di questa psicoterapia è strettamente correlato con la comprensione che si ha del paziente.

L'approccio comportamentale pone particolare attenzione alla possibilità che il comportamento sia provocato da stimoli ambientali, quindi una parte del colloquio deve essere orientata ad identificare gli stimoli che possono provocare il comportamento problematico, per poi analizzare le conseguenze di tale comportamento.
Secondo questo approccio ci sono aree comuni da indagare nei vari pazienti e aree specifiche in base al tipo di disturbo.
Il colloquio diagnostico di questo orientamento considera 3 modalità di risposta conseguenti allo stimolo (comportamento manifesto, componenti cognitive, attività fisiologica) e valuta quali eventi possono aver contribuito a scatenare, ridurre o mantenere il comportamento, ed indaga i pensieri e le emozioni che causano il comportamento-problema.
Bisogna indagare sugli antecedenti al problema (che possono essere di tipo affettivo, somatico, comportamentali, cognitivi, legati all'ambiente e ai rapporti interpersonali): nell'immediato quali situazioni preesistenti al verificarsi della situazione problematica rendono più probabile la sua comparsa, quali la rendono meno probabile e quali altre situazioni precedenti influenzano ancora la comparsa del problema.
Le aree di indagine sono: informazioni generali, dati evolutivi (salute), problema attuale (evoluzione), natura del problema, caratteristiche del problema, eziologia, mantenimento, trattamenti precedenti, altro (motivazione, aspettative).


Gli anni 90


Si riduce la tendenza alla differenziazione tra i modelli di disturbo psichico e aumenta quella a far cercare elementi di integrazione, aumentando anche la concordanza tra le aree da indagare tra le varie scuole e si pone di più l'attenzione al trattamento più adeguato per il paziente.

Il tentativo di integrazione dei modelli è reso possibile grazie a 3 fattori:
  1. la minor considerazione della validità e attendibilità della diagnosi psichiatrica
  2. il riconoscimento dei limiti intrinseci alla scelta di ateoricità dei DSM
  3. il riconoscimento della multicausalità dei disturbi psichici
Si incomincia a delineare in psichiatria la figura di un operatore della salute mentale, che pur avendo alcune specificità dovute alla propria scuola, ha aree di intervento comuni: la formulazione della diagnosi e della prognosi, l'indicazione e la controindicazione ai trattamenti.

La diagnosi può assumere caratteristiche negative se diventa:
  • un esercizio di incasellamento nosologico al posto che un processo di chiarificazione
  • un rapporto statico e passivo con il paziente
  • un'attività prevalentemente centrata sul clinico invece che un compito condiviso con il paziente
L'efficacia del trattamento è la conseguenza di una serie di decisioni specifiche e mirate prese in momenti successivi, e quindi non è possibile sviluppare un trattamento efficace con informazioni prese solo in un determinato momento o in base a caratteristiche statiche di un paziente.

Gli anni 90 si contraddistinguono perchè vogliono diagnosticare e curare al di là dei modelli delle scuole, si è smesso di cercare il trattamento più efficace in assoluto e si è iniziato a considerare l'efficacia dei singoli modelli a seconda dei casi specifici.
Si è fatta differenziazione tra colloqui specializzati e colloqui clinici di consultazione, dove i primi sono organizzati in base ad un preciso orientamento teorico, mentre i secondi impostano tutto in base ad ogni singolo caso specifico (il colloquio clinico, se ben condotto, non deve avere nessuna scelta preordinata).
Si scopre la necessità di una buona alleanza diagnostica, che è un rapporto emotivo particolare tra clinico e paziente che consente di trovare uno o più oggetti comuni di lavoro, dove entrambi abbiano un ruolo e delle competenze da mettere a disposizione per svolgere il compito pattuito.
Questa alleanza è un risultato dovuto alle capacità del clinico e alle caratteristiche personali del paziente (comprese le sue esperienze passate), ed è la condizione fondamentale perchè si possa formulare la diagnosi, nonché la garanzia implicita dell'attenzione al modello del paziente.
Nel 1993 J. Morrison svolge un lavoro sul primo colloquio, rivolgendosi a tutti gli operatori, affermando che l'operatore fa un buon colloquio se sa ottenere nel minor tempo possibile le informazioni necessarie per la diagnosi e l'indicazione al trattamento, mantenendo al tempo stesso una buona alleanza di lavoro.
Secondo Morrison tutti i clinici dovrebbero riuscire a vedere il paziente dal punto di vista biologico, dinamico, sociale e comportamentale, dato che ogni paziente può aver bisogno di trattamento in una o più di queste aree.

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